La coreografa
americana Trisha Brown è morta il 18 marzo in
Texas a Sant'Antonio a 80 anni, seguendo di qualche mese quella del marito,
l'artista Burt Barr che con lei aveva collaborato. "È con profonda tristezza che diamo l'annuncio della
morte, al termine di una lunga malattia", ha scritto ieri la sua
compagnia, ancora acclamata nel mondo, in un comunicato pubblicato su Twitter.
Da tempo si
sapeva che le condizioni di salute della grande danzatrice e coreografa
americana erano ormai arrivate a un punto di non ritorno. In Italia, la sua
compagnia era venuta l'ultima volta nel 2014, ospite al Ravenna Festival con il
'Farewell tour', una sorta di antologica con pezzi cult del passato e nuove
coreografie che ancora una volta avevano mostrato lo slancio innovativo del
lavoro di Trisha Brown con quel pezzo d'apertura, Son of Gone Fishin’ del 1981, dove ogni sera i danzatori
improvvisavano su pezzi diversi di musiche firmate da Robert Ashley. Ma questa
era Trisha Brown: fantasiosa e sperimentale, la prima a portare la danza in
luoghi non convenzionali, a far ballare i ballerini in jeans, scalzi, a usare
la musica (ma spesso anche a non usarla) in modo libero, a intrecciare il
lavoro sul movimento con altre arti a
cominciare da quelle visive – basterebbe ricordare la
sua lunga collaborazione con Robert Rauschenberg – a giocare con l'improvvisazione... E tutto questo
in oltre 100 coreografie e sei opere, dagli anni Settanta al 2011 data della
sua ultima “novità” come coreografa perchè come ballerina aveva già lasciato nel 2008.
Longilinea, i
capelli riccioluti era stata una autentica rappresentante dell'ondata
innovarice, ribelle, underground della New York tra gli anni Settanta e
Ottanta, creando uno stile astratto, radicale ma nello stesso tempo
comunicativo e di grande impatto: artista amata dal Balletto dell'Opera di
Parigi, da Mikhail Baryshnikov e dagli artisti più sperimentali come Donald Judd o Laurie Anderson.
Trisha Brown era
nata ad Aberdeen, nello stato di Washington il 25 novembre del 1936. Si era
diplomata in danza nel 1958. Attratta dagli studi sull'improvvisazione si
trasferisce nel '60 a New York e studia
con Merce Cunningham, entra nella fucina del
Judson Dance Theater, si incrocia con Steve Paxton e Yvonne Rainer. Nel
1970 fonda la sua compagnia, fino al 1979 formata da sole donne. E lì comincia l'avventura: allena i suoi ballerini a
una astrattezza e leggerezza quasi da sogno, come a vincere la gravità, appesi a grandi funi fa scalare loro le pareti
come in Walking on the Wall, o Roof Piece dove danzano in 12 tetti di palazzi
tra 10 blocchi di SoHo.
Dell'83 il
capolavoro Set e Reset con le musiche di Laurie Anderson e disegni di
Rauschenberg, che viene considerata il manifesto della danza postmoderna.
Seguita da For M.G.: The Movie (1991) con musiche di Alvin Curran, del '96 You
can see us, lei di spalle in una danza a specchio con Mikhail Baryshnikov. Alla
fine degli anni Novanta, dopo 30 anni di sperimentazione esordisce nel mondo
dell'opera con L’Orfeo di Monteverdi
(1998), cui seguirono anche molte coreografie ispirate dalla musica classica. Le
ultime: L’Amour au théâtre (2009) e Les Yeux et l’âme (2011).
Nella storia
della danza e nel cuore di chi l'ha conosciuta Trisha Brown lascia il ricordo
di corpi in un movimento estremamente raffinato e semplice, vivo, pieno di
salti, slanci, corpi pronti a scattare, carichi di energia e impulso ma nello
stesso tempo sensuali. La sua compagnia resta il lascito più importante: non solo perché continua a tenere viva la memoria dei grandi
lavori in repertorio,ma per proseguire la linea aperta da Trisha Brown con le
nuove leve sottoposte allo stesso duro training fisico dei danzatori di un
tempo.
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